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JO MO. Donne e realizzazione spirituale in Tibet
di Carla Gianotti

Introduzione

Da tempo mi dedico allo studio di quelle figure femminili – terrene, divine o archetipiche – della tradizione buddhista indo-tibetana, che valgono a ispirare la ricerca spirituale delle donne nel buddhismo contemporaneo, secondo una visione di equilibrio di genere e di conciliazione di genere. Perché la ricerca spirituale delle donne è anche ricerca di luoghi di riconoscimento, luoghi capaci di tessere un universo simbolico di possibili genealogie e modelli spirituali femminili. E questo non per intenti di idealizzazione o celebrazione del femminile fine a se stessa o autoreferenziale, ma per trovare radici di esperienza che sappiano custodire tutta la dignità e tutto il valore dell’essere donna su un cammino spirituale. All’interno dei diversi e molteplici buddhismi contemporanei, l’urgenza profonda delle donne devote al Dharma di non poter essere riconducibili a autorevoli figure religiose declinate unicamente al maschile genera la necessità di individuare e tenere cari modelli spirituali femminili, donne di spiritualità, donne di illuminazione. Perché se è vero, come afferma Umberto Galimberti, che il simbolo contiene un’eccedenza di senso rispetto al senso conosciuto e che la sua forza simbolica dura finché dura questa eccedenza(1), le immagini di ispirazione sono allora quelle che, allargando il nostro spazio interiore di riferimento, si fanno luoghi capaci e capienti, luoghi fecondi, cioè appunto simbolici. Il presente lavoro, che si pone come la continuazione ideale del volume Donne di Illuminazione. Ḍākinī e demonesse, Madri divine e maestre di Dharma pubblicato alcuni anni fa dalla sottoscritta in questa stessa collana editoriale, è dedicato a straordinarie adepte tibetane dell’XI-XII sec. chiamate jo mo, di cui fortunosamente ci è pervenuta memoria. Nella cerchia di discepoli e discepole che il maestro buddhista tantrico indiano Pha Dam pa sangs rgyas (morto nel 1117) raccolse intorno a sé a Ding ri gLang ’khor, nel Tibet meridionale, un posto particolare spetta infatti a ventiquattro venerabili la cui esistenza ci viene tramandata attraverso un testo agiografico abbastanza antico – probabilmente non posteriore al XIII sec. – intitolato la Storia delle ventiquattro jo mo (Jo mo nyi shu rtsa bzhi’i lo rgyus, d’ora in poi JMLG)(2), qui per la prima volta tradotto integralmente dall’originale tibetano(3). Tale opera, inserita in un’ampia raccolta di insegnamenti che il maestro Dam pa avrebbe consegnato direttamente al suo discepolo Kun dga’ (1062-1124), attraverso una trasmissione cosiddetta ‘di uno a uno’ (tib. chig rgyud), è da intendersi quale testo celebrativo del maestro indiano e, solo implicitamente, delle realizzazioni spirituali conseguite dalle venerabili sue discepole. Se pure nella tradizione buddhista tibetana il termine jo mo non indica in realtà un particolare stadio di ottenimenti spirituali, almeno ventitré delle nostre jo mo, le quali condussero un’esistenza lontana dal mondo – nella solitudine delle montagne o dissimulando la loro reale identità – debbono essere riguardate quali adepte straordinarie, soprattutto per i segni prodigiosi venuti a manifestarsi al tempo della loro dipartita. Dall’agiografia dedicata al maestro Pha Dam pa sangs rgyas, poi, ci sono pervenuti alcuni ‘canti spirituali’ o ‘canti di realizzazione’ (tib. mgur) di particolare bellezza e finezza poetica, attribuiti a tre jo mo sue discepole non comprese nel testo agiografico relativo alle ventiquattro jo mo. E tali canti mgur, unitamente ad alcune istruzioni spirituali di forte impatto emotivo che il maestro tantrico, secondo le modalità proprie dei siddha dell’India, avrebbe rivolto ai discepoli e discepole a lui particolarmente devoti, vengono qui tradotti dall’originale tibetano. Ci dice il bodhisattva Kun dga’, il compilatore del nostro testo, che “la Storia delle ventiquattro jo mo [è] un racconto assolutamente autentico, scritto come messaggio per le donne delle future generazioni”(4). Le brevi storie delle venerabili jo mo giunte fino a noi – storie oltremodo scarne, fatte di poche tracce e di molti spazi bianchi, di ammanco di parola – ci consegnano testimonianza dell’invisibile e dell’assenza, non del non-esistente. Perché l’orizzonte sociale e religioso in cui si dipanano le narrazioni delle nostre jo mo è quello di una cultura che non ha tramandato, se non in rari casi, il sapere delle donne devote, e che dunque non ha purtroppo saputo fare memoria dell’esperienza e della genealogia delle donne per produrre tradizione spirituale. A questo poi si aggiunga che, come è accaduto spesso nella cultura sia d’Oriente sia d’Occidente, la femminilità delle protagoniste e la mascolinità dell’autore hanno prodotto situazioni impari di visibilità (e di esattezza storica) nella trasmissione del sapere religioso e spirituale femminile e nell’universo simbolico che a que- sto si riconduce. Il messaggio per le future generazioni di cui parla Kun dga’ è forse allora quello di custodire memoria delle ventiquattro jo mo discepole del maestro Pha Dam pa sangs rgyas, di esistenze segnate da fede e devozione, perseveranza e profondi conseguimenti spirituali. Solitamente chi non ha voce, non ha storia: la parola è privilegio, la memoria è privilegio. Qui una esile eco è venuta fino a noi, in margine.

(1) U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 63-64.

(2) Il JMLG, che appartiene a un’antica collezione di testi manoscritti compilata da Kun dga’ (ora disponibile in una raccolta ristampata in cinque volumi dal titolo: Kun dga’ et al., Th e Tradition of Pha Dampa Sangyas: A Treasured Collection of His Teachings Transmitted by T[h]ug[s]-sras Kun-dga’, “Reproduced from a unique collection of manuscripts preserved with ‘Khrul-zhig Rinpoche of Tsa-rong Monastery in Dingri, edited with an English introduction to the tradition by B. Nimri Aziz”, 5 volls, Th impu, Kunsang Tobgey 1979), costituisce la seconda parte (in Idem, vol. IV, pp. 314-323) di un’opera intitolata Jo mo nyi shu rtsa bzhi’i zhu lan lor rgyus dang bcas, “Risposte alle domande delle ventiquattro jo mo, insieme con le loro storie” (in Idem, vol. IV, pp. 302-323); la prima parte di tale testo, dal titolo Jo mo nyis shus rtsa bzhi’i zhu lan, “Risposte alle domande delle ventiquattro jo mo” (in Idem, pp. 302-314), non viene qui tradotta in lingua italiana e sarà l’oggetto di una futura pubblicazione.

(3) Negli Annali azzurri (dt, pp. 1068-1073; versione inglese: BA, pp. 915-920) viene riportata una versione abbreviata e con numerose omissioni delle agiografie delle ventiquattro jo mo discepole di Pha Dam pa sangs rgyas, dal titolo Ma jo nyi shu rtsa bzhi’i lo rgyas (“Storia delle ventiquattro ma jo”); in BA il termine jo mo viene reso come ‘monaca’ oppure ‘Signora’: cfr. C. Gianotti, “Female Buddhist Adepts in the Tibetan Tradition. Th e Twenty-four Jo mo, Disciples of Pha Dam pa sangs rgyas”, Journal of Dharma Studies, giugno 2019, vol. 2, parte 1, pp. 15-29, alla pag. 18 nota 24.

(4) JMLC, Idem, p. 314.

© 2020, Carla Gianotti © 2020, Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma www.astrolabio-ubaldini.com 1 U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 63-64.

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